Premessa

Partiamo da una verità scomoda: il Covid è l’innesco di una crisi di sistema e non la causa. A febbraio, quando l’Europa ancora si sentiva al sicuro, gli sforzi erano concentrati sul più grande piano economico mai visto in Europa orientato a recuperare terreno nel campo dell’Intelligenza Artificiale perseguendo tre obiettivi: New Green Deal, formazione, competitività nel rispetto dell’etica. Gli obiettivi di ieri sono diventati la ratio del Recovery Fund di oggi.
Il Sottosegretario al Ministero dell’Economia e delle Finanze Pier Paolo Baretta durante il webinar “RECOVERY FUND: Quali criticità e opportunità per le imprese del nostro territorio”, lo ha ricordato mettendo in fila i numeri: dei 672 miliardi di euro stanziati, circa 209 spettano all’Italia, ripartiti in sussidi a fondo perduto (81.4 miliardi) e prestiti (127.4 miliardi). Fatti salvi 10 miliardi che sono definiti “transizione giusta” e sono dedicati ai costi connaturati alla trasformazione dei modelli economici e produttivi, il 37% (minimo) dei finanziamenti deve essere incanalato nella transizione Green, e il 20% (minimo) nella transizione digitale. Il terzo driver è la formazione, che dovrebbe assorbire sia parte del 43% restante del Recovery, sia parte dei quasi 80 miliardi aggregati tra fondi ordinari e compartecipazione.
Si configurano così i tratti salienti di una crisi sui generis – ha continuato nella sua analisi di scenario il Sottosegretario Baretta – dove c’è abbondanza di risorse, crollo dei consumi e aumento della capacità di risparmio delle famiglie (+30 miliardi nel 2020).
Quindi la necessità di una transizione economica si è saldata con la necessità di gestire nuove disuguaglianze, configurando il Recovery Fund come l’incrocio di una strategia di lungo periodo – di luci e ombre – con delle soluzioni di emergenza di brevissimo periodo.

Non a caso ha due nomi: Recovery Fund e Next Generation EU e non a caso ha due sottotitoli: resilienza e rilancio. Il che ci proietta immediatamente al cuore del problema: scegliere se guardare ai nodi irrisolti del nostro passato provando a porvi rimedio un passo alla volta, o scommettere su un futuro radicalmente diverso, sfruttando lo spazio che in molti ambiti l’”effetto livella” del Covid avrà purtroppo determinato.
Nel mondo dell’ICT questo dilemma ha un nome: trasformazione incrementale Vs trasformazione disruptive. Per capire quando è meglio procedere con l’una o con l’altra occorre fare un’analisi delle esigenze e una definizione puntuale degli obiettivi.
Il problema è che nel nostro caso l’uno e l’altro sono territori dai confini incerti: abbiamo l’esigenza di compiere una transizione verso un’economia dei dati di cui non conosciamo le implicazioni e abbiamo il compito di gestire le nuove diseguaglianze prima di poterle mappare.
E dunque, a che tipo di trasformazione stiamo mettendo mano? In nome di cosa ci stiamo giocando il presente e ipotecando il futuro di almeno tre generazioni intese à la Braudel?

Energia, Connettività, Chimica … E se nell’economia che verrà fossero i Contact Center a fare la differenza?

Siamo di fronte a un’opportunità storica – lo ha sottolineato il Sottosegretario Baretta – per le risorse che possiamo gestire; ma l’opportunità impallidisce di fronte alle incognite e ai rischi sul lungo periodo poiché la maggior parte dei 670 miliardi è a debito. Ai nastri di partenza non siamo messi bene: in parte siamo storicamente incapaci di gestire al meglio e con pienezza i fondi europei, in parte anche in questa circostanza è trapelato lo scetticismo con il quale si guarda alla nostra capacità di presentare un progetto articolato e credibile entro due mesi. Ma fino a oggi, cosa è stato fatto? E con quale ratio?

Chi si prenda il tempo di leggere le 678 proposte presentate dai diversi Dicasteri, potrà facilmente desumere quali sono gli ambiti e gli obiettivi in cui si incardina il piano di resilienza e rilancio (ma che per converso rivelano anche le nostre aree di fragilità): ampliamento e capillarità dei servizi nel rispetto della loro universalità, equità e accessibilità; ammodernamento e potenziamento delle infrastrutture fisiche e digitali, con l’obiettivo di averne di più sicure ed efficienti; l’erogazione di una formazione adeguata a ridurre il mismatch tra domanda di lavoro e offerta, con focus sulle nuove competenze digitali; costruzione e mantenimento di reti di relazione in ottica di filiera o di community; e infine l’equipaggiamento di strumentazione innovativa per incrementare le performance o trasformare il modo di operare in determinati ambiti.
In estrema sintesi l’Italia sembra voler perseguire l’obiettivo di estendere l’accessibilità ai servizi conservandone l’efficacia e la capillarità. E per farlo punta sulla completa trasformazione digitale e sull’informatizzazione ma anche sul potenziamento delle infrastrutture e dei presidi fisici.
Scendendo nel dettaglio si potrebbe cercare di capire l’opportunità di portare avanti, ad esempio, un progetto di prossimità delle cure e uno di telemedicina destinato a cambiare destino e funzione degli Ospedali. Ma anche restando solo sui progetti ICT, avventurandosi nella lettura delle 678 proposte di progetto fin qui candidate al recepimento dei fondi europei si rende evidente un’interpretazione peculiare della digitalizzazione. Più che ai modelli di Smart Nation come Israele ed Estonia che mirano a disintermediare, semplificare e velocizzare archiviazione, accesso e distribuzione dei dati con l’obiettivo di dare impulso alle attività, in Italia sembra che stia prevalendo una logica a silos in cui ogni Dicastero ha il suo Data Center, il proprio protocollo di interoperabilità, le proprie esigenze da soddisfare.
E non si può fare a meno di chiedersi se ciò stia avvenendo per una mancata comprensione delle opportunità o non per una piena comprensione dei rischi, primo tra tutti il diverso modo di gestire il potere derivato dalle informazioni.

Tali criticità generali trovano declinazione anche nei progetti puntuali, dove si fa più evidente il ragionamento – “scandaloso” – di Lelio Borgherese, il Presidente del Gruppo Activa intervenuto durante il webinar con una proposta spiazzante: puntare sui contact center per abilitare la transizione digitale del Paese. O meglio sui Business Process Outsourcer, come ha preferito definire il proprio settore Borgherese. Il senso della proposta trae origine da ciò che i Contact Center sono diventati: aziende ad alto tasso tecnologico che hanno avviato una trasformazione in termini di competenze, servizi e know-how, che li ha messi al centro della relazione tra il cittadino e le istituzioni, i consumatori e i Brand. La trasformazione digitale ha fatto il resto, convertendo le interazioni in uno scambio dati che oggi significa non soltanto informazioni ma anche transazioni e, soprattutto, insight. Ossia conoscenza reale e capillare delle persone.
Il percorso di qualificazione e accreditamento che i BPO hanno intrapreso nel campo dell’ICT li ha resi competenti anche sulle tecnologie e la gestione dei processi, concentrandovi così le conoscenze relative alle esigenze e alle opportunità tecnologiche lato imprese e Pubblica Amministrazione.

Parte da qui l’analisi di Borgherese, incernierata sulla convinzione che per governare una trasformazione si debba partire dal basso, coinvolgendo gli utenti finali. “Senza adoption l’innovazione non funziona. La differenza la fanno le persone, non le tecnologie – ne abbiamo avuto ulteriore dimostrazione con le vicende legate a Immuni dove abbiamo fallito nell’educazione, nella comunicazione, nei comportamenti non nella progettazione dell’app. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: nessuno si segnala, pochi sanno quanto sia importante o cosa si debba fare per caricare i codici nel sistema nazionale, molti ricevono alert a cui non sanno come reagire, tutti ne parlano.
Tutto il contrario di come dovrebbe funzionare un processo che arriva all’obiettivo dove tutti devono essere coinvolti e partecipi, molti devono sapere cosa fare, pochi riceveranno un alert di errore e nessuno commenti.”

Rileggendo da questa angolatura alcune delle proposte di progetto ne saltano all’occhio due: il primo è “Post COVID-19: Il fotovoltaico come opportunità di transizione verde. L’introduzione di un bonus per l’energia prodotta ed autoconsumata in loco”; valore stimato: 113.100.000,00 Euro.
Nel breve abstract che lo accompagna si chiarisce: “Aumentare l’interesse delle persone fisiche verso l’installazione di pannelli fotovoltaici, favorendo una trasformazione green dei luoghi abitativi urbani e rurali”.
La necessità di informare e comunicare i vantaggi dei pannelli fotovoltaici è un obiettivo che il Governo Italiano si è dato dalla fine degli anni ’90. Se dopo 20 anni si stimano necessari (ancora? altri?) 113 milioni è evidente che qualcosa non ha funzionato e dovremmo comprendere cosa per evitare di ritrovarci con analoghi problemi. Prendiamo un secondo progetto: l’adeguamento delle reti elettriche in ottica smart grid, presentato dal MISE per un valore di oltre 8 miliardi in 5 anni. L’esigenza di monitorare i consumi di ogni singolo cittadino per costruire intorno a lui una rete di produzione, ridistribuzione e fruizione dell’energia elettrica sostenibile e intelligente è iniziativa meritoria e di alto interesse nazionale (come lo era favorire il passaggio alle rinnovabili negli anni ’90). Ma se ricommettiamo lo stesso errore di far calare dall’alto l’innovazione, avremo le stesse difficoltà. Se invece partiamo dalla mappatura delle esigenze capendo cosa limita, per esempio, l’acquisto e l’installazione di un termostato Nest, della lavatrice connessa o dei contatori di ultimissima generazione, potremo intervenire sul coinvolgimento dei cittadini e, risalendo al contrario tutta la catena del valore, registrare, modulare e ridisegnare processi e attività necessarie.

In questo senso i Contact Center con il loro bagaglio di conoscenze, professionalità e strumenti sono effettivamente accreditati per dare il loro contributo sin dall’inizio della pianificazione.
Si viene a configurare un settore che presiede i canali di comunicazione ma anche gli oggetti della comunicazione – un operatore delle reti digitali e umane che coltiva la capacità di far accadere le cose.

Pensando a ciò che sappiamo dei Contact Center può sembrare una visione ambiziosa – come del resto ambizioso è il tentativo di rilanciare tutta insieme l’economia di un Paese e di un Continente in un unico sforzo organico. Borgherese quindi conclude il suo intervento aprendo una finestra sulle attività in cui il Gruppo Activa è coinvolto: infrastrutture per il Contact Center INPS capaci di gestire oltre 5 milioni di interazione mese, volumi di molto superiori a quelli per cui erano stati progettati; remotizzazione di 4.500 persone in meno di 20 giorni con adoption di modelli organizzativi radicalmente differenti; realizzazione di architetture ibride per l’interoperabilità tra agenti virtuali e umani; investimenti in formazione e in innovazione mediante processi di open innovation o finanziamenti diretti nel mondo delle startup. Forse i Contact Center non sono ancora gli attori principali della transizione a economie digitali ma certamente non sono più solo aziende di Customer Care e di Teleselling.
Nella sistematica mancanza di capacità progettuali, con il tempo che corre veloce nella clessidra, prendere in considerazione ogni opzione è un obbligo che non si può snobbare.

 

Paolo Emilio Colombo